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I problemi psicologici correlati all’invecchiamento

E’ troppo sbrigativo parlare di deterioramento cognitivo nella vecchiaia: la sofferenza psicologica dovuta a numerose perdite e frustrazioni (cambiamenti del fisico, separazione dagli affetti familiari, dal lavoro, mancanza di un ruolo nella società), anziché essere ascoltata, viene spesso sottovalutata, confusa con demenza e curata come tale. È così che l’anziano, isolato dal mondo che non ha più bisogno di lui, posto in una situazione di “mancanza”, sperimenta ansia, tenta di reagire organizzando una serie di meccanismi di difesa che esprimono la crisi di adattamento alla vecchiaia. In questa situazione d’ insoddisfazione pochi sono gli anziani che riescono ad esprimere aspirazioni chiare e definite, vorrebbero domandare di essere sostenuti, apprezzati, ma spesso finiscono col ripiegarsi su se stessi, isolarsi, abbandonarsi ad un’ attività fantastica, ad uno stile di vita vegetativo. E’ utile ascoltare la persona anziana, tentare di capire la ferita narcisistica, osservare le sue difese, le croci in cui è stato impigliato, piuttosto che limitarci ad attribuire il suo comportamento ai fattori del deterioramento cognitivo.
La persona anziana può quindi soffrire di disturbi psicologici come a qualsiasi età, solo che per cultura tendiamo a leggerli sempre come disturbi cerebrali.
Cesa-Bianchi, studioso della psicologia dell’ invecchiamento, parla di una vera e propria “crisi di adattamento alla vecchiaia” che interessa tutte le persone anziane e che può produrre varie reazioni:
. chiusura (non ci si sente più capiti, ad esempio ci si ripiega su se stessi);
. aggressività (si crede che la causa della nostra felicità sia l’ambiente, ad esempio si diventa intrattabili);
. negazione (non si accettano i cambiamenti del corpo, ad esempio ci si sottopone alla chirurgia estetica);
. proiezione (si forza la realtà facendo dire agli altri cose che pensiamo noi);
. dipendenza da sostanze (si cerca di far cessare la sofferenza psicologica abusando di farmaci o alcool).
Queste reazioni rientrano in una condizione di normalità se durano poco tempo, ma diventano patologiche se si cristallizzano.

La salute del caregiver

Con il termine demenza si indica una malattia progressiva e cronica che comporta la compromissione globale delle funzioni cognitive (quali la memoria, il ragionamento, il linguaggio, la capacità di orientarsi o di svolgere compiti motori complessi), tale da pregiudicare la possibilità di una vita autonoma soddisfacente. Ai sintomi descritti si accompagnano quasi sempre alterazioni della personalità e del comportamento che possono essere di entità piuttosto varia nel singolo paziente.
La demenza è una malattia che coinvolge la persona nella sua globalità e, nell’evoluzione della stessa, impegna sempre più i familiari nell’assistenza e nella custodia della persona malata.
Proprio per l’impatto che la demenza ha sul malato, sul familiare e sul sistema familiare stesso, viene definita come malattia familiare.
Secondo una stima dell’associazione Alzheimer Italia (2015), dei circa 1.400.000 casi di malati, circa l’80% sono assistiti direttamente da un familiare. Il termine caregiver si riferisce a tutti i familiari che assistono un loro congiunto ammalato e/o disabile, riferendosi dunque nello specifico anche alle persone che si prendono cura di un malato colpito da demenza. Il compito del caregiver è quello, all’interno del nucleo familiare di appartenenza, di farsi carico del benessere della persona che necessita di cure “in una condizione di momentanea o permanente difficoltà” (Rossi, 2006).
L’impatto della demenza sul caregiver è stato definito “caregiver burden” ed esprime l’impatto complessivo delle esigenze fisiche, psicologiche e sociali nel fornire assistenza.
Gli effetti dell’assistenza sulla vita del caregiver sono rilevanti e vanno dall’ambito professionale ad un ambito più strettamente personale. Il significato soggettivo del percorso assistenziale, derivante dall’insieme di emozioni, sensazioni e sentimenti correlati al mutamento, alla perdita e al lento affievolirsi della relazione con una figura significativa, si traduce spesso in frustrazione e paura, forme depressive, ansia, insonnia e può essere accompagnato da vissuti di rinuncia e svuotamento emotivo, dolore e impotenza e da sentimenti contraddittori di collera, colpa ed eccessivo coinvolgimento. Il carico oggettivo implica sacrifici a livello economico, diminuzione dell’efficienza in ambito lavorativo, spazi e tempi ridotti per sé e per la famiglia, ritiro sociale e sensazione di non riuscire a mantenere l’abituale standard di qualità di vita.
La combinazione di sforzo fisico e psicologico che la cura di un malato di demenza richiede può determinare nel caregiver un vero e proprio deterioramento della salute generale, fino a renderlo una “seconda vittima” delle patologie invalidanti che colpiscono l’anziano e, in quanto tale, a sua volta bisognoso di assistenza.

Secondo alcuni studi, particolarmente a rischio è il coniuge. Chi cura il coniuge con demenza ha il più alto indice di stress rispetto a qualsiasi altra relazione assistenziale, più elevato negli ultra sessantacinquenni rispetto ai più giovani e, col trascorrere del tempo, spesso diventa impossibile proseguire l’assistenza a domicilio per il sopravvenire anche di fasi di malattia del familiare caregiver (Taccani, 1994). In generale, il caregiver della persona con demenza ancora oggi subisce la fatica, l’isolamento sociale, la riduzione della qualità della vita e la compromissione delle relazioni familiari Si stima che più del 50 % dei caregivers familiari è a rischio di depressione, presentano inoltre ansia, insonnia, difficoltà a concentrarsi sul lavoro; essi sono a più alto rischio di ospedalizzazione, usano una maggiore quota di farmaci ed in particolare di psicofarmaci rispetto alla popolazione generale

E’ essenziale determinare il livello, il tipo e la causa del “caregiver burden” per ottimizzare tutti gli interventi (psicologici, sociali, educativi e farmacologici) volti a ridurlo.
Interventi di aiuto rivolti al caregiver possono avere una positiva ricaduta anche sul suo rapporto con il familiare malato e sulla sua qualità di vita. In tal senso sono necessari supporti mirati allo specifico disagio emerso, volti a dare sollievo di tipo soggettivo ed emotivo. Da una parte si rendono necessarie attività di coinvolgimento del malato che, al domicilio o in strutture adeguate (es. centri diurni specializzati),
alleggeriscano l’accudimento fisico da parte del caregiver. Parallelamente interventi di aiuto psicologico, quali percorsi di sostegno psicologico individuale, gruppi di auto-mutuo aiuto, etc., possono permettere al familiare di elaborare i vissuti depressivi correlati al caregiving, riattivando le risorse di personalità presenti e favorendo in tal modo una maggior padronanza della situazione stessa e quindi un maggior senso di auto-efficacia.

Appare dunque fondamentale che il caregiver ricordi sempre di avere cura di se stesso per non esaurire le risorse emotive e fisiche nell’interesse oltre che proprio anche del familiare malato.

Valutazione neuropsicologica nei pazienti colpiti da ictus

Gli studi scientifici pubblicati negli ultimi anni hanno dimostrato l’esistenza di una relazione tra lo stroke ed il rischio di sviluppare una forma di demenza. Sottoporre i pazienti con ictus ad una valutazione neuropsicologica permette di valutare i disturbi cognitivi (alterazioni dell’attenzione, della memoria, del linguaggio, della percezione e così via) e, in secondo luogo, di intraprendere un percorso riabilitativo che può rallentare la progressione del deterioramento cognitivo.

Gli effetti dell’ictus cerebrale dopo la fase acuta sono dati principalmente da deficit motori, alterazioni posturali, disturbi della sensibilità e deficit cognitivi. Il trattamento di questi esiti richiede un approccio integrato che punta a diversi obiettivi tra cui: la prevenzione delle recidive, la riabilitazione dei deficit motori e delle alterazioni cognitive, il trattamento delle complicanze comportamentali. Per quanto riguarda gli ultimi due aspetti, la valutazione neuropsicologica rappresenta un indispensabile strumento d’approfondimento. Attraverso questo esame, infatti, si apprendono informazioni sul comportamento, le capacità cognitive, la personalità, le abilità apprese e il potenziale riabilitativo delle persone che hanno subito un ictus cerebrale.

L’esame neuropsicologico è composto di varie fasi:

  1. l’intervista (per rilevare la storia personale, la descrizione soggettiva dei disturbi, la presenza di disturbi emotivi e comportamentali, la consapevolezza dei disturbi, l’impatto dei deficit sull’autonomia del paziente, le relazioni familiari)
  2. l’osservazione (per conoscere i comportamenti riferiti dai familiari, dai medici e comportamenti emersi durante il colloquio)
  3. i test neuropsicologici (per approfondire le funzioni cognitive quali la memoria, l’attenzione, la percezione, i deficit spaziali, il linguaggio e così via)

L’esame neuropsicologico può essere effettuato in fasi diverse del percorso diagnostico. In una condizione ad insorgenza improvvisa, come lo stroke, è opportuno condurre tale valutazione nella fase post-acuta, quando il quadro clinico del paziente appare stabile. Generalmente è utile eseguire una prima valutazione dopo 3-6 mesi per identificare le alterazioni cognitive e le capacità conservate. Ulteriori valutazioni potranno essere utili per quantificare il livello di miglioramento eventualmente raggiunto dal paziente. I risultati della diagnosi neuropsicologica saranno poi utilizzati per la realizzazione di un piano di riabilitazione cognitiva personalizzato. La durata del trattamento viene necessariamente condizionata dalla durata della degenza; quando l’obiettivo proposto non è stato raggiunto al termine del ricovero, solitamente si propone la continuazione della riabilitazione in day-hospital. L’obiettivo finale è quello di favorire una maggiore autonomia, accrescere il benessere psicologico e alleviare la disabilità del paziente nel proprio contesto ambientale.

La stimolazione cognitiva nella demenza

L’approccio terapeutico alla Demenza di Alzheimer prevede, oltre alla terapia sintomatica farmacologica, anche una serie di provvedimenti diretti al mantenimento dello stato funzionale della persona (abilità cognitive, stato emotivo e comportamentale).

Già nel 2011, il Rapporto Mondiale Alzheimer indicava che le terapie non farmacologiche (terapie che non impiegano farmaci, ma solo interventi psicologici o psicosociali) potevano migliorare la funzione cognitiva, ritardare l’istituzionalizzazione, ridurre lo stress psicofisico di chi assiste i malati e migliorare la qualità di vita.

La stimolazione cognitiva si configura come un intervento orientato al benessere complessivo della persona in modo da incrementare la riattivazione delle competenze cognitive residue e limitare il rallentamento della perdita funzionale dovuta alla malattia. Oltre a questo, promuove esperienze gratificanti che vanno ad incidere positivamente sul livello di autostima e sulla immagine di sè. In questo senso, la stimolazione cognitiva identifica un intervento non farmacologico che interviene non solo sulla sfera cognitiva, ma anche su quella affettiva, comportamentale e relazionale. Questo è possibile perché le complesse funzioni cerebrali sono determinate dal numero delle connessioni che intercorrono tra i neuroni. Le esperienze durante il corso della vita, il tipo di relazioni personali, la qualità della formazione scolastica e del lavoro svolto, costituiscono potenti fattori che determinano il numero e la qualità delle connessioni attive. Il nostro cervello è quindi dotato di una sorta di riserva cognitiva formata dal numero di cellule nervose di cui siamo dotati e dalla quantità dei percorsi che le connettono.

Mantenere cognitivamente impegnate le persone affette da deterioramento cognitivo facilita la permanenza temporanea di questa sorta di riserva cerebrale. Soprattutto nella prima fase di malattia, le persone con demenza sono ancora in grado di apprendere, consolidare o formare nuovi collegamenti, seppure in modo meno efficiente. Naturalmente questo processo non è in grado di compensare la degenerazione determinata dalla patologia, ma la contrasta consentendo il temporaneo mantenimento di alcune autonomie funzionali.

Le tecniche di stimolazione cognitiva specifica comprendono attività per la stimolazione dell’attenzione, della memoria e dell’orientamento spazio temporale (ovvero stimolazione di quelle funzioni che tendono a peggiorare per prime).

Stimolazione dell’ attenzione

Stimolazione dell’orientamento spaziale e temporale

La gestione dei disturbi comportamentali nella demenza

Gli effetti della demenza sulla famiglia sono stati chiaramente evidenziati da studi che in diversi contesti socio-assistenziali hanno valutato le conseguenze dei sintomi e dei diversi stadi di malattia sul “caregiver” (familiare che assiste o si fa carico del malato). I risultati concordano nell’affermare che i disturbi del comportamento rappresentano la principale fonte di stress per il caregiver e per la famiglia, comportano un incremento del carico assistenziale e costituiscono una delle principali cause di istituzionalizzazione del malato.

Aggressività

Le persone affette da demenza quando superano la soglia di tolleranza allo stress possono reagire con comportamenti aggressivi sia verbali che fisici. Ovviamente sono spesso rivolti al caregiver e possono essere più marcati se colui che si prende cura del malato non è quello abituale. I pazienti affetti da demenza, se fisicamente sani, possono avere una forza fisica impressionante. Tuttavia la loro capacità di coordinare una sequenza fisica orientata all’aggressione è molto limitata. È quindi importante innanzitutto non lasciarsi spaventare da un comportamento aggressivo, che molto probabilmente non riuscirà ad essere veramente pericoloso, e concentrarsi sulle tecniche più efficaci per disinnescare la crisi. Generalmente le reazioni aggressive esprimono paura, confusione, disagio, incomprensione. Riuscire ad individuare i fattori scatenanti aiuterà a prevenire le reazioni ostili o a trovare la soluzione ottimale per limitarle. Questo non sarà sempre possibile. In tal caso è comunque importante mantenere una grande tranquillità, parlare con tono di voce pacato ed essere rassicuranti nei gesti. È fondamentale ascoltare attentamente la persona, mostrare di volere innanzitutto sentire quale sia il suo problema, e solo successivamente rispondere. Una buona conoscenza e gestione della persona permette un’ampia prevenzione dei comportamenti aggressivi.

Come affrontare un comportamento aggressivo

  • Posizionarsi allo stesso livello della persona, mantenere un atteggiamento calmo e rassicurante, parlare con un tono pacato utilizzando il contatto visivo.
  • Cercare di distrarre la persona dall’evento scatenante, utilizzando a proprio vantaggio la mancanza di memoria a breve termine.
  • Evitare gli atteggiamenti di sfida e i tentativi di coercizione fisica.
  • Dare una possibilità di scelta e fornire rassicurazioni.
  • Analizzare le paure; non negare o minimizzare le preoccupazioni della persona, ma convalidarle.
  • Tenere gli oggetti pericolosi fuori portata.

Come prevenire un comportamento aggressivo

  • Se possibile, individuare la causa e risolverla (rimuovere un oggetto disturbante, chiarire una situazione compresa male dalla persona, etc.)

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