Negli ultimi anni si è assistito ad una progressiva evoluzione del pensiero scientifico rispetto all’applicazione degli interventi non farmacologici (rivolti alla modifica degli aspetti cognitivi e comportamentali) nella cura delle demenze. Da un’iniziale diffidenza o scarsa considerazione si è giunti oggi a una parziale rivalutazione di tali tecniche, anche se, sono ancora troppo limitate le ricerche e i relativi risultati sui progressi che tali trattamenti possono produrre sul malato.
L’origine di tale trasformazione è dovuto alla sempre più stretta corrispondenza d’interessi tra la psicogeriatria e la neuropsicologia cognitiva secondo un’ottica che vede le modificazioni indotte dal deterioramento cerebrale non una perdita di informazioni, di autonomia e di controllo del comportamento, ma come una serie di risorse residue, ancora utilizzabili e di potenzialità non ancora completamente indagate. Si è a conoscenza, infatti, che se è vero che nella demenza le cellule cerebrali muoiono, è altrettanto vero che, almeno nella fase iniziale della malattia, è possibile una riorganizzazione delle zone cerebrali ancora integre. Ad un livello più pratico, si può affermare che, mantenere impegnati i pazienti affetti da demenza consente ai neuroni ancora funzionanti di continuare a vivere grazie alla stimolazione, facilitando la formazione di una piccola riserva cerebrale. Infatti, i pazienti affetti da demenza sono ancora in grado di apprendere e di formare nuovi collegamenti. Naturalmente questo processo non è in grado di compensare interamente la degenerazione cognitiva causata dalla malattia, ma la contrasta consentendo una serie di benefici. L’obiettivo della stimolazione cognitiva nel paziente demente, quindi, non è ripristinare le funzioni cognitive danneggiate dalla malattia, quanto il rallentare la loro evoluzione ed il sostenere l’attività delle zone cerebrali ancora funzionanti, con particolari effetti su quegli aspetti dell’autonomia personale, che possano migliorare la qualità della vita del malato ed alleviare il carico gestionale del caregiver.
Nell’impostazione di un adeguato programma di attivazione cognitiva, oltre alla gravità clinica (molte delle attività proposte sono progettate per soggetti nella fase lieve e moderata della malattia) bisogna tener conto dell’eterogeneità individuale (livello di scolarità, situazione socio-economica, interessi e attitudini personali, grado di motivazione). È essenziale che ci sia una coerenza tra le proposte riabilitative e la personalità del paziente: qualsiasi attività di stimolazione risulta opportuna solo se condivisa dalle predisposizioni e dall’esperienza del soggetto nel corso della sua esistenza prima della malattia. La potenziale efficacia del piano riabilitativo, infatti, decade immediatamente se non rientra nelle abitudini di colui al quale è destinato o se non è compatibile con il suo grado di cultura.
Obiettivi generali della stimolazione cognitiva:
- Sostenere l’orientamento spazio-temporale del malato rispetto al sé e al proprio ambiente di vita;
- Stimolare la funzione linguistica;
- Favorire l’attenzione e la concentrazione;
- Attivare le autonomie;
- Mantenere gli interessi del passato;
- Migliorare le capacità relazionali e comunicative;
- Aumentare il livello della stima di sé.
Gli esercizi proposti per attivare le capacità di orientamento spaziale-temporale si basano sulla sollecitazione della memoria dichiarativa (ROT, ‘Pianta della città’, ‘Oggetti in una stanza’, ‘Oggetti nascosti’, ‘Curiosando nel negozio’, ‘Di mese in mese’).
Le attività per stimolare il linguaggio servono altresì alla sollecitazione delle memorie esplicita, semantica ed associativa, nonché al coinvolgimento della memoria implicita laddove il recupero sia difficoltoso (‘Le associazioni attivabili con una parola’, ‘Parole che iniziano e finiscono con..’, ‘Due in uno’, ‘Alfabetando’, ‘Simili ed opposti’).
Nel paziente affetto da demenza l’attenzione risulta compromessa già nella prima fase della malattia. I seguenti esercizi si pongono l’obiettivo di favorire il mantenimento dell’attenzione selettiva e la messa in atto di comportamenti di esplorazione e osservazione (‘Identificazione di stimoli visivi’, ‘Identificazione di stimoli acustici’, ‘Cerca e trova’, ‘Guarda e ricorda’, ‘Giochi enigmistici’).
Non si può sottovalutare il fatto che, nonostante l’obiettivo primario del trattamento sia quello di migliorare una o più funzioni cognitive, molto più importante è l’obiettivo generale di agire sul benessere del paziente.
Per sostenere l’impegno cognitivo le persone da coinvolgere in attività di stimolazione debbono essere necessariamente in una fase lieve-moderata della malattia. Per determinare il livello di gravità della funzionalità cognitiva, si sottopone il paziente ad una valutazione neuropsicologica della durata di circa 2 ore. L’esame viene effettuato a tre livelli:
Valutazione delle funzioni cognitive
Valutazione dello stato funzionale
Valutazione dei sintomi non cognitivi
Il passo successivo consiste in un colloquio con il paziente ed un familiare per la presentazione del progetto di attivazione (definizione del tempo necessario, degli obiettivi e delle attività previste per il loro raggiungimento) e per saggiare la motivazione del soggetto e del caregiver.
Solitamente, un ciclo di attivazione include 12 incontri della durata di 45 minuti ciascuno. Le sedute hanno luogo con una frequenza di 2 alla settimana (è utile programmare le sedute mantenendo gli stessi giorni e lo stesso orario). Dopo la prima serie di incontri, il programma riabilitativo è ripetibile a distanza di 6 mesi. Alla fine del trattamento è previsto un colloquio di restituzione con il paziente ed il familiare.